• Teatro al castello di Itri: “Festa al Celeste e Nubile Santuario”

    by  • 7 gennaio, 2014 • EVENTI & FESTE, NEWS • 0 Commenti

    A Itri torna il grande spettacolo del teatro. Torna con una commedia del noto Enzo Moscato del 1989, “Festa al Celeste e Nubile Santuario” che rivive oggi grazie alla sapiente regia di Pasquale Valentino, il quale da oltre trent’anni ha abituato il pubblico alla qualità e all’impegno profuso nella messa in scena teatrale. In questa occasione si presenta con il “Beltempo Teatro Ensemble”, che null’altro è se non la certificazione di una unione tra la sua attività teatrale ultradecennale e la Casa delle Arti “Beltempo” di Fondi, ovvero tra due fermenti culturali molto vivi.

    La manifestazione ha anche il sostegno del Comune di Itri, della Regione Lazio e dell’Associazione Culturale “Libero de Libero”.
    Ad andare in scena ci saranno gli attori Maria Amalia Del Bove , Paola Placitelli, Daniele Nardone e Serina Stamegna, mentre gli elementi scenici saranno curati da Salvatore Coniglio.
    Si potrà assistere alla rappresentazione teatrale al Castello Medievale di Itri nei giorni 10 e 11 gennaio alle ore 21 e il 12 gennaio alle 18, con ingresso a 7 €.

    Diapositiva 1Festa al Celeste e Nubile Santuario

    Note di Regia

    “Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro.”

    Questa bellissima verità di Enzo Moscato contiene in se tutta la necessità dell’uso della Lingua Napoletana nel suo Teatro. Nella drammaturgia e nell’universo dei personaggi e delle tematiche raccontate da questo grandissimo autore, la parola non può essere che Napoletana. Il suono, la musicalità di questa lingua sono indispensabili per poter raccontare questi spaccati di vita, queste storie che a loro volta si alimentano e sono alimentate da questo linguaggio in un rapporto simbiotico e vitale. Moscato va anche oltre; recupera espressioni idiomatiche arcaiche e ne crea di nuove. E queste nuove espressioni rinnovano la lingua rendendola attuale, le danno nuova vita.  La drammaturgia napoletana è, da qualche anno, la più singolare fucina di ingegni teatrali. Sono quasi tutti nel segno dell’era post-eduardiana e, in un certo senso, ne rappresentano, se non la continuità, gli sviluppi. Questa “nuova drammaturgia” si stacca dal filone pulcinellesco, per imboccare la strada della commedia realistica, ora tragica ora farsesca, il più delle volte dotta e ricercata nel linguaggio. Il recupero della dignità dialettale è totale, senza concessioni, senza sudditanze, senza sruffiananti genuflessioni all’italico matriarcato linguistico. In altre parole ci si guarda bene e non ci si sogna nemmeno di italianizzare quelle fonematiche esplosioni vesuviane, ricche di musicalità, ma assolutamente incomprensibili per chi ha poca confidenza col napoletano. Nella dignità del loro legittimo orgoglio linguistico,  ci si pone con spavalda arroganza, come a dire: o prendere o lasciare. Così Festa al celeste e nubile santuario, un testo che ho amato fin dalla prima lettura. Una vicenda strana, un noir paradossale, una storia anomala ma  estremamente probabile. Tre sorelle, un basso in un strada qualsiasi dei  Quartieri Spagnoli. Un microcosmo culturale dentro quattro mura domestiche.  Ignoranza, Superstizione, Bigottismo, Solitudine, Disperazione, ma anche Lingua, Linguaggio ed Assenza di linguaggio, Gesto, Impossibilità di Comunicare.  Moscato non si pone troppi problemi di comprensibilità linguistica, affidando (non a torto) alla complicità gestuale ed espressiva degli interpreti il disvelamento. Il lavoro Laboratoriale fatto con Mariamalia, Paola, Serina e Daniele, è andato in questa direzione. Insieme abbiamo scarnificato Testo e Sottotesto, Intenzioni, Stati d’animo, Vissuto implicito o Immaginato, Esplicito o Sommerso  dei quattro personaggi. L’azione scenica viene traslata da un basso napoletano ad una stanza d’ospedale psichiatrico  dismesso  perché storie come queste possono solo nascere, crescere e svilupparsi nel disagio più totale e nell’abbandono.   La disperazione e la solitudine di queste tre anime in pena, sorelle anagrafiche ma nemiche, impastate di sesso inappagato e di feticistico misticismo, in un’amalgamata congerie di oggetti domestici e di chiacchiericci donneschi, tra taglienti pettegolezzi e spicciole professioni di fede, dal culto della Madonna all’esaltazione della verginità, trova, a mio parere, giusta collocazione in quei luoghi simbolo del disagio mentale e fisico, delle diversità, dell’emarginazione: i manicomi. La legge  180/1978  Basaglia, pur basandosi su principi sacrosanti, con la giusta chiusura  dei manicomi non risolvendo completamente il problema della malattia mentale, ha restituito alla collettività luoghi infernali dove storie come questa sarebbero potuto accadere quotidianamente. Nel Manicomio Criminale di Aversa,  fino a pochi anni fa,  ci vivevano persone ricoverate prima del ‘78, di cui nessuno si faceva carico. Queste tre sorelle non sono matte, ma semplicemente disperate ed abbandonate. Segnate dalla sorte fin dalla nascita con i nomi (che Moscato sapientemente sceglie per questi tre personaggi) che le sono stati dati: Elisabetta, Anna e Maria. Il loro disagio, la loro disperazione è una miscela esplosiva di ignoranza e superstizione, di non conoscenza/assenza dal mondo esterno col quale sono in  collegamento attraverso una religiosità distorta.  Unico tramite fisico: il diverso, lo scemo, il reietto, l’emarginato Toritore.  Ed allora  si mettono in moto ingranaggi imprevedibili. La muta Maria, dopo un mestruo celeste, si scopre incinta. L’autoritaria e bigotta Elisabetta perde la vista. La diabolica  Annina trionfa e nel prodigio di Maria,  vede si il segno di miracolose predestinazioni, ma soprattutto la possibilità di realizzare il suo piano : godere del giovane corpo e della compagnia di Toritore, “…povero guaglione mentegatto e sfasulato…”

    Avverranno cose, alla maniera d’un Hitchcock alla napoletana, che ovviamente qui non sveleremo.

    Pasquale Valentino

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